Masmoudi. Parte II

Il Masmoudi è un ritmo della musica Andalusi (in arabo, infatti, la musica classica andalusa è chiamata ṭarab andalusi) di cui si può leggere qualcosa nel post precedente. La musica Andalusi, il cui capostipite è Ziryab, è stata poi contaminata da un approccio occidentale grazie al filosofo, compositore e poeta  Ibn Bajjah nel 1139 d.C, e da allora, si diffuse in tutto il Nord Africa, soprattutto in Marocco, a cui oggi risulta associata. Diversi stili dello stesso ceppo musicale Andalusi li troviamo in altri Paesi del Nord Africa, come Libia, Algeria e Tunisia [1].

Ecco perchè il Masmoudi, alla fine, è un ritmo molto utilizzato in tutta la musica del Nord Africa, pure in quella egiziana.

Il trigramma ci dice che la misura corrisponde a otto quarti, misura che conferisce al ritmo un ampio respiro, una larghezza sacra e vaporosa. E’ un ritmo elegante, caratterizzato da tre dum iniziali che occupano ciascuno un quarto di battuta, e che aiutano chi danza a incominciare con un’apertura di grande solennità.

8/4 è una misura molto lunga: non è possibile eseguire con la stessa intensità ogni pulsazione ritmica e sta quindi al gusto della ballerina e soprattutto alla frase melodica che segue, distinguere i giusti momenti di pathos [2].

La versione che trovate scritta è detta Masmoudi Kebir (cioè Grande Masmoudi, o anche Three Dum Masmoudi), ma esistono alcune variazioni, come il Masmoudi Kabir (cioè Piccolo Masmoudi, chiamato Two Dum Masmoudi).

Lamma Bada è un famosissimo pezzo Andalusi, che ben si presta a una coreografia evocativa. La prima versione è più classica, mentre quella contemporanea è cantata da Natacha Atlas.

Bibliografia:

[1] Andalusian Classical Music, English Wikipedia

[2] Lezioni presso ASD L’Aura

Masmoudi. Parte I

Torniamo, per un momento, all’etimo della parola flamenco, con riferimento all’interpretazione di Blas Infante secondo cui “flamenco” deriverebbe dalla contrazione dei termini fellah e mengu, termini di origine araba con cui ci si riferisce a una remota fuga di contadini. Ma di quali contadini sta parlando?

L’episodio a cui si fa riferimento è l’espulsione degli arabi da quello che allora era uno stato medioevale del sud della penisola iberica: lo stato di Al-Andalus (anche questa è una parola araba). Fellah (contadino) mengu (fuga) sono termini che, secondo Blas Infante, indicherebbero i Moriscos, i musulmani andalusi stanziati in Spagna e forzati a lasciarla in seguito alla repressione anti-islamica del 1609. Poichè a seguito dell’espulsione si registrò un improvviso calo dei coltivatori oltre all’ovvio allontanamento degli arabi verso il Nord-Africa e i territori ottomani (Istanbul specialmente), ci si riferisce al popolo arabo con il termine fellah, contadino. E, in questa fuga, riposerebbero le radici della celebre danza spagnola.

Prima, invece (cioè prima dell’esodo), la Spagna meridionale aveva conosciuto la dominazione islamica, che coprì il periodo tra il secolo VIII (700 d.C) e XV (1500 d. C). Durante il primo periodo dell’insediamento musulmano, conosciuto come Califfato di Cordova, lo sviluppo dei commerci e della cultura fu anch’esso centrale. La Moschea di Cordova venne realizzata in quel periodo, ma è solo uno degli esempi della grandiosità delle opere che fiorirono allora, tant’è che il Califfato di Cordova è stato considerato l’apice della presenza araba nella penisola iberica e polo culturale nell’Occidente Medioevale di quel tempo.

Mosque Cordova

Moschea di Cordova

Tutti i califfi di Cordova erano membri della dinastia degli Omayyadi e, fra i primi membri della dinastia che governarono, incontriamo un profondo amante della poesia: Abd al-Raḥmān II. Si dedicò dall’822 all’852 ad abbellire la sua capitale, che divenne centro di arte e scienza dell’Europa Occidentale. Venne aiutato da quattro personalità principali, tutte poliedriche, perchè in quell’epoca chi si interessava di chimica, musica, poesia, cosmologia, moda, botanica, geografia, strategia, astronomia e canto… era la stessa persona.

Ziryab, uno dei quattro collaboratori di Abd al-Raḥmān II, era tutto questo.

Il Giardino di Ziryab

Il Giardino di Ziryab

Originario di Baghdad, allievo di Isḥāq al-Mawsilī che, geloso della sua bravura, l’aveva costretto a lasciare l’Oriente, Ziryāb, una volta approdato in Spagna, conquistò l’amicizia dell’Emiro e qui divenne re del buon gusto.

Ziryāb, oltre a essere stato uno dei depositari della cultura scientifica dell’epoca, è ritenuto non solo l’inventore del plettro, ma anche il padre della musica arabo-andalusa. Di cui il Masmoudi, di cui parleremo nel prossimo post, è uno dei ritmi più rappresentativi. Ecco perchè il Masmoudi ha un sapore antico, e richiama figure di stelle e di fiori nella stessa battuta.

Maqsoum

Ogni ritmo, per quello che so di musica araba (quindi poco), si basa su due suoni principali, il dum e il tak. Il dum e il tak corrispondono a due modi differenti di colpire la membrana dello strumento a percussione. Il mondo arabo è ricchissimo di tamburi, di dimensioni, timbri e nomi diversi, che creano una varietà unica di colori a livello ritmico. I ritmi, quindi, non si distinguono solo per metrica, ma pure per le tonalità caratteristiche dello strumento che li esegue. In ogni caso, comunque, il suono dum corrisponde a un suono grave e basso, ottenuto colpendo il centro, per esempio, della tabla, un piccolo tamburo di origine indiana. Il suono tek, invece, si genera colpendo il bordo, ed è un suono più secco e corto.

Ogni misura o battuta è suddivisa in un numero preciso di pulsazioni che, sommandosi, definiscono il valore temporale della battuta. Il dum e il tak occupano pulsazioni diverse a seconda del ritmo. Quindi, il diverso alternarsi di due soli modi di colpire la membrana definisce la sequenza ritmica che, ripetendosi durante l’esecuzione di ogni battuta, crea un’atmosfera unica.

Non è facile riconoscere i ritmi diversi durante l’ascolto, ma il consiglio delle insegnanti è di individuare i suoni principali (dum e tak), i quali rappresentano i codici di identificazione e di lettura.

Partiamo da un ritmo semplice.

Molto diffuso in tutto il Medio Oriente, e soprattutto in Egitto, il ritmo MAQSOUM deriva dalla radice araba qsm che significa “dividere”. Proprio perchè la cellula ritmica è scandita in due parti dal suono dum.

Viene suonato generalmente in 4/4, perchè la battuta è suddivisa in quattro tempi (valore al numeratore) da un quarto ciascuno (unità di tempo). Le pulsazioni, nel MAQSOUM, valgono 1/8, cioè la metà di ogni unità di tempo, e sono distribuite come indicato nello schema (la nota con la codina vale 1/8). Il dum e il tak occupano posizioni particolari che distinguono inequivocabilmente il ritmo.

Il MAQSOUM viene utilizzato sia nei brani popolari che in quelli classici, proprio perchè molto coinvolgente. Per seguirlo sul trigramma è utile isolare il dum (in prima e in quinta posizione, che è come se dividesse (qsm) la cellula ritmica) e distinguerlo nella melodia.

Fonte: Appunti di danza orientale

Misura e ritmo. Per tutte le musiche che verranno.

Cosa può accadere in un minuto?

Puoi salire le scale, fare una telefonata, spremere un’arancia, addormentarti, preparare il caffè, innamorarti. Può accadere veramente di tutto: la storia più lunga letta nel minuto di un racconto; l’attesa di un minuto lunga secoli. Sembra che un minuto duri in modo diverso a seconda che ci si diverta o che ci annoi, ma una cosa rimane certa. La sua precisa scansione in sessanta secondi rimane invariata. Non uno in più, non uno in meno. Sessanta secondi passeranno, esatti e pacifici, qualsiasi cosa succeda.

Immaginiamo la linea del tempo e dividiamola in una serie di unità, di dimensione a scelta. Devono però essere sempre uguali. La misura – in musica chiamata più spesso battuta – coincide con l’unità scelta.

La battuta contiene una serie di valori che la descrivono numericamente e temporalmente, che si chiamano unità di tempo.

Per esempio, se la nostra battuta coincidesse con un minuto, ogni battuta potrebbe essere descritta da unità di tempo da un secondo ciascuna.  E in ogni battuta troveremmo, alla fine, 60 unità di tempo. Sta al compositore scegliere il valore in cui scandire il minuto. L’unità di tempo può coincidere anche con un valore di 30 secondi – e allora ne troveremmo solo due – e, ancora, la battuta può contenere unità di tempo di valore diverso, certo! L’importante è che ogni battuta del nostro brano sia costituita sempre dallo stesso insieme di unità di tempo.

Bene, cos’è il ritmo?

Il ritmo è costituito da una serie di accenti, che si ripetono periodicamente, e che occupano, secondo un preciso schema, le pulsazioni della battuta. Le pulsazioni della battuta corrispondono spesso alle unità di tempo.

Quindi, per semplificare, ecco diversi ritmi per la nostra battuta – il nostro minuto – in cui l’unità di tempo coincide con un secondo:

  • Ritmo 1: due accenti, un accento ogni 30 secondi;
  • Ritmo 2: quattro accenti, un accento ogni 15 secondi;
  • Ritmo 3: sessanta accenti, uno ogni secondo;

Qualsiasi ritmo venga scelto, se la nostra linea del tempo è suddivisa in battute uguali, gli accenti si ripeteranno in modo regolare, con lo stesso schema in ogni battuta.

Enjoy rythm : )

Fonte: Rythm, Wikipedia

Dum Tek. And the beat goes on

Quando credi di aver ormai esaurito lo spazio a disposizione, averlo esplorato in lungo e in largo, in alto, a terra, ecco che ti insegnano un giro nuovo, una nuova tensione, un modo diverso di allungarsi e credere, per poco, che il corpo non abbia limiti. La danza è una dimensione veramente infinita.

La stessa sera, durante una minuscola tregua, ho pensato a come il corpo debba essere preciso nel leggere la musica orientale. Forse perchè le percussioni sono una componente dominante, nel classico e nel folk, sono quasi ingombranti, e richiedono che il ballerino sia  matematico nell’esecuzione.

Sono il metronomo instancabile, la pulsazione naturale per un organico come per una ballerina. Infatti, mai come in altre danze, è richiesto che la danzatrice conosca i ritmi per poter improvvisare sull’esecuzione del percussionista.

Libri di solfeggio e metronomo ci sono. Qui raccoglierò appunti che, come in ogni degna tradizione numerica, sono stati sempre sudati e sempre saranno preziosi.

Gelsomino. Tra terra e cielo

Recentemente ho letto La poesia della danza del ventre. Come voce dell’archetipo femminile di Ronit Mandel Abrahami.

Confesso: non sono per questo genere di letture, ma sapendo che l’autrice è una coreografa israeliana per cui molte ballerine nutrono una grande stima, ho deciso di acquistarlo e superare le mie rigidità.

L’ho finito, e sono felice di aver trovato quello che in rete rimane superficiale e sfuggente. Dall’altra parte, per buoni tratti, la lettura è quasi mantrica e questo mi ha fatto un po’ arrancare. Sicuramente è una sensazione personale, e forse lo è solo perchè i contenuti di quelle parti più introspettive non rientravano tra gli interessi storiografici che mi avevano spinta a comprarlo.

Diciamo che l’intento di questo post è chiudere in una leggenda araba – leggera leggera – un messaggio che avevo colto solo di traverso durante i cinque anni di studio di danza orientale e che ho capito con questo libro.

La danza orientale, malgrado il filtro orientalista che l’ha fatta conoscere a noi occidentali e che noi stessi occidentali,  a partire dall’epoca vittoriana in poi, abbiamo sostenuto, può essere chiamata anche danza del ventre. Sì, liberamente e serenamente. Perchè, è vero, “potrebbe avere” origini molto antiche. E ci sono alcuni dati storiografici che “sembrano” (sembrano, keep confidentially) associare la danza ai riti di fertilità che, in quei tempi, erano comuni alle diverse civiltà del mediterraneo. Alcuni movimenti presenti tutt’oggi nel vocabolario classico della danza orientale potrebbero essere stati lo sfondo rituale di molte culture.

Diciamo, invece, che “sicuramente” la fertilità è da sempre collegata alla dea dai grandi fianchi e seni prosperosi. Molti furono i nomi attraverso i quali il culto si diffuse lungo il Mediterraneo, trasformandosi in figure di riferimento diverse: Ishtar (Mesopotamia), Iside (Egitto), Neith, Meti, Astarte e Afrodite (Grecia), Cibele, Brigit, Venere. Vero e proprio culto della vita, della natura, per celebrare quel misterioso matrimonio tra la terra aperta all’intervento fecondo del cielo.

Matrimonio tra il pari e il dispari,  tra il divisibile due con l’indivisibile tre. Tant’è che il numero cinque ha simboleggiato nelle tradizioni mediterranee e del Vicino Oriente la fertilità, la Grande Madre dai tanti nomi.

La struttura del fiore della specie più nota in Occidente del gelsomino, il Jasminum officinale, è a cinque petali. Così da sempre il fiore è legato all’amore, e forse è per questo che in Oriente si narra così…

The White Jasmine Branch, painting of ink and color on silk by Chinese artist Zhao Chang, early 12th century

La leggenda racconta che un giorno la madre di tutte le stelle, Kitza, stava preparando nel suo palazzo di nuvole gli abiti d’oro per i suoi figli astri quando giunse un gruppo di stelline che si lagnavano delle loro vesti. “La mia è troppo larga”. “La mia non risplende abbastanza” “La mia non è guarnita di gemme” “Io la vorrei attillata” “Io meno fulgida” Strepitavano confodendo la povera madre. “Bimbe mie, non fate chiasso” pregava Kitza. “Non fatemi perdere tempo. Molte sorelle sono ancora nude e potrebbero ammalarsi”. ma le stelluce capricciose non le davano retta e continuavano a protestare. Finchè passò da quelle parti il re degli spazi, Micar: udendo quel chiasso, entrò nel palazzo. “Che succede qui dentro?”domandò con voce tonante.

Le stelle, spaventate, diventarono sottomesse e docili, ma non poterono nascondere la verità. Allora Micar, sdegnato, urlò: “Poichè siete così egoiste e pretenziose, vi caccio dal firmamento”. Strappò loro gli abiti d’oro e le scagliò come ciottoli nel fango per terra. La madre cadde in un inconolabile dolore: “Mi hai tolto dalle vene molte gocce di sangue, inflessibile Micar. Che mai faranno le mie povere stelle in mezzo al fango? Gli uomini e le bestiole le calesteranno, le umilieranno”.

La signora dei giardini, Bersto, provò pietà per la povera madre. “Kitza” disse “potrei aiutare le tue povere figlie. Le trarrò dal fango trasformandole in fiorellini profumatissimi.”

E’ così che nacquero I gelsomini, le stellucce della terra.

Bibliografia:

“La poesia della danza del ventre. Come voce dell’archetipo femminile”Ronit Mandel Abrahami.

“Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante”, Alfredo Cattabiani

Corimè Live @Castello – Desenzano sul Garda, 14 agosto 2012

Mi sento esattamente in una barchetta di carta.

Ho piegato questa idea fase per fase, seguendo le istruzioni. Le danze del mediterraneo, scrivo un blog, cerco di aggiornarlo tra idee e avversità di stesura, editing. L’impaginazione grafica è una battaglia persa nei limiti della gratuità dei costi, ma faccio il possibile. Poi salgo. Non l’avrei fatto se avessi pensato che la carta si bagna velocemente.

Le barchette di carta fanno acqua da tutte le parti, direte voi. E lo dico un po’ anch’io, perchè non è semplice trovare in rete fonti attendibili, approfondimenti culturali che siano validi, e mi aiutino anche a supportare questa ricerca di unità nell’arte coreutica del nostro amato mare. La ricerca si sta rivelando più simbolica, forse, che storica. In cui intanto appunto, e poi scopro. Così lo scafo è inzuppato, e promette il peggio.

Ma le barchette di carta stranamente rimangono a galla. E il comune di Desenzano, controintiutivamente a quanto si mostra nei suoi noti intrattenimenti, mi ha regalato una spinta davvero inaspettata. La vigilia dell’ – ebbene sì – ventiseiesimo compleanno la passo in Castello, con il velo blu del cielo stellato, la pietra fresca del suo cortile e il vento del lago vicino a ricordarmi i miei propositi.
E i Corimè, grande conchiglia che, se avvicini l’orecchio, senti il rumore del mare.

“I fratelli Roberto e Maurizio Giannone, siciliani di origine, intraprendono molto giovani un viaggio attraverso l’Europa alla scoperta del mondo musicale che li circonda. Collaborano con molti artisti di diversa provenienza, sia musicale che culturale.
Tornati in Italia si stabiliscono sul lago di Garda. Nel 2006 prende forma il progetto Corimè che si concretizza nel 2010 con la realizzazione dell’album Zagara, un nuovo “viaggio” particolarmente ispirato e forte dell’esperienza umana e professionale raccolta negli anni.”

Dentro la loro musica ho trovato, sottile sottile, quesa idea di unità. Le danze, è vero, non c’entrano, ma il ritmo definisce e limita lo spazio della danza. Il ballo è un po’ come fare l’amore con la musica e diventano un’unica espressione.

La tradizione salentina, quella sicula, quella campana, il folclore di questo zoccolo che balla sull’acqua. I Corimè partono da qui, da storie di musica avvolte dai secoli, che servono a inquadrare la contaminazione che – solo poi – propongono, oltre a tutto quello che dentro di loro c’è da esprimere.
Trovi pizzica, tarantella, tamurriata nera, l’immancabile repertorio classico. Ma poi avanzano per sentieri propri, con qualcosa che ha della nenia araba assorta, qualche eco di antica andalusia, tra una voce e un organico incredibilmente povero, e vivo, e pulsante. Fisarmonica, percussioni, chitarra e uno straordinario e discreto contrabbasso.

La loro personalità si esprime nel riarrangiamento, nel dialetto, e nella sensibilità a temi comuni al Mediterraneo. E allora la loro musica diventa un luogo immaginario, un momento inafferrabile, in cui tra Sicilia e le sponde da cui partono le barche clandestine, non c’è alcuno spazio di mare.

Eccolo qui.


Ancora prima chi nasci ‘u suli              Ancora prima che nasca il sole
‘I varchi stannu tagghiannu ‘u mari    Le barche tagliano il mare
E na li manu asciddica rimannu          E nelle mani scivola remando
‘U so rispiru prigannu                            Il suo respiro pregando
E senti friddu ‘na stu desertu               E sente freddo in questo deserto
Cu l’occhi chini di acqua e Sali             Con gli occhi pieni di acqua e sale
‘Nu mari ‘nu mari                                   Nel mare
E na stu jornu chi va nascennu            E in questo giorno che nasce
A peddi pigghia culuri                           La pelle si colora
E mentri ‘u cielu si sta dapennu          E mentre il cielo si apre
I vrazza ’un sentinu cchiù duluri         Le braccia non sentono più dolore
‘Un senti friddu ‘un senti scantu         Non sente freddo non sente paura
E l’occhi s’inchinu di chiantu              E gli occhi si riempiono di pianto
‘Nu mari ‘nu mari                                  Nel mare
Corimè… corimè…
Corimè… corimè…
Corimè… corimè…
Con una media esagerata all’anno
Arrivano sulle nostre coste “numeri”
Di colori diversi
E tra questi uomini con la speranza nel cuore
Con la famiglia in mano al destino
Donne con la disperazione stretta dentro ai pugni
Madri incinta di figli veri e spesso madri di figli finti
Tenuti in vita solo in cambio
Di un biglietto per una carretta di mare
Tenuti in vita solo in cambio di un pò di soldi da giocare
Tenuti in vita solo in cambio di un favore da restituire
Quei piccoli cuori da donare

Raqs Baladi. La danza del mio paese

“Tu proverai sì come sa di sale

lo pane altrui, e come è duro calle

lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. . .»

Per Dante, il sapore dell’esilio è quello del sale. Del pane salato, così dissimile da quello fiorentino, che è sciapo, alto, spugnoso, eppure saporitissimo. Quanto gli mancava quel pane. A Roma non lo trovava da nessuna parte. E non è come adesso, che abbiamo il mondo in tavola.

Ma questa è un’inedita parafrasi, bocciatemela : )

Eppure la lontananza, in esilio, ha un sapore. Anche la semplice lontananza da casa ha un sapore. E per me ha proprio il sapore del sale, e di tutti quei sapori che pizzicano il palato quando assapora cibi sconosciuti, diversi. È un sapore sempre presente nei primi mesi, senza essere espatriati per forza per ragioni politiche. Compare ai primi chilometri, ai primi periodi fuori dal proprio villaggio. Nelle prime notti in case in affitto. Nei primi lavori, con volti nuovi davanti e nuove lingue nelle orecchie. Alle volte è anche un profumo.

Solo quando diventa nostalgia, l’amarezza della distanza si fa rosata, e diventa compagna da nemico che era. La possiamo affrontare. È struggenza, diventa desiderio di muoversi, di liberarsi. Non delle radici. Ma di tutta quella tensione che ci faceva rimpiangere il passato e lo riedificava pur di averlo vicino e presente. E’ solo in questo momento che possiamo avvicinarci con più curiosità al nuovo mondo che ci circonda. Provando, anche, a metterlo vicino a quello che un po’ ci manca.

Agli inizi del Novecento si assiste proprio a questo, durante il trasferimento di moltissimi abitanti delle campagne o di altre città, come Luxor e Alessandria, verso un unico grande centro: il Cairo [1]. Erano tutte persone in cerca di lavoro o commercianti che si mettevano in moto per vendere la propria merce. Popolazioni diverse incontrano quella urbana della capitale e, nel trasferirsi, molte persone decidono di danzare la loro nostalgia e lasciarsi guidare anche un poco dalle novità del posto. E’ allora che nasce il raqs baladī.

Raqs baladī è traducibile letteralmente in danza (raqs) del mio paese (baladī), dove per paese si intende campagna o città da cui provengono gli immigranti. Il baladi è quindi una danza urbana di formazione recente – poichè si sviluppa al Cairo negli anni ’30 del XX secolo – ma il cui repertorio include movimenti appartenenti a tradizioni diverse delle varie campagne e città d’Egitto, che riportano nello sfogo del corpo un pezzetto della propria terra. Ognuno aggiunge qualcosa del suo bagaglio culturale e lo va integrando a quello locale e a quello d’altri, ideando un incredibile variegato artistico, tenuto insieme da una forte messaggio culturale e identificazione emotiva, che è appunto la nostalgia.

Il baladi è qualcosa di più di una danza. È un momento di contaminazione, un melting plot si direbbe oggi, che decise di esprimersi nel linguaggio della danza popolare, in quel momento musicalmente soggetta alle influenze del jazz e del blues che le prime radio, negli anni ’30, trasmettevano [4].

Il baladi è improvvisazione. È spontanea, diretta. I piedi sono nudi, e la ballerina non sale in mezza punta come prevede lo stile classico. È ben ancorata a terra, e quella che vorrebbe sotto i propri piedi è proprio quella natia. Il baladi, nella sua forma più autentica, esprime malinconia. Si caratterizza quindi per movimenti piccoli, sinuosi e circolari, mani poco vezzose e intensa espressività [3]. La musica, pertanto, è elaborata e crea momenti strategici alla comunicazione che ha un ruolo centrale in questa danza. Affianca strumenti della tradizione, come il duff e la tablah, a quelli importati dalla musica occidentale: tastiera, sax e fisarmonica. E nella loro relazione riverbera precisamente quella tra la tradizione araba e i nuovi spunti che l’Occidente fornisce.

Infatti il baladi si trasforma, in questo background culturale, in un preciso stile compositivo, da non confondersi con il ritmo baladi, che è un’altra cosa ancora. Lo stage con Wael [2] mi ha aiutata a capire che sono due prodotti molto distinti.

Il baladi in quanto composizione musicale si suddivide in tre momenti molto precisi:

1. introduzione: è definita dall’improvvisazione (taqsim) di uno strumento solista. Quindi il brano si apre con l’assolo di un solo strumento – spesso è il sax, o l’accordeon (fisarmonica), la tastiera, il kanoun – che conduce un’improvvisazione.

2. dialogo: è definito dall’alternarsi dello strumento solista e dalla tablah, strumento appartenente propriamente alla cultura araba. I due strumenti dialogano fra loro, alternandosi in un vero e proprio “botta e risposta”. C’è una comunicazione molto chiara, e il dialogo (ha anche un nome preciso che ora non mi ricordo : ) ha una durata variabile.

3. sviluppo: è definito dallo sviluppo del dialogo in un vero e proprio brano musicale, che si arricchisce di altri strumenti, come il nay (flauto arabo), il rabab (violino arabo) e altri strumenti occidentali.

Ecco un esempio.

Nella musica araba, poi, il baladi può anche indicare un ritmo. E, nell’ambito culturare, si è anche sviluppato in un tipo di danza che meglio si presta a essere portata sul palcoscenico, modificando alcune caratteristiche, espressive e tecniche.

Attualmente, quindi, baladi vuol dire molto. E’ per questo che gli studi proseguono e altri post potrebbero aggiungersi a questa categoria : )

 

Bibliografia:

[1] http://www.shira.net/baladi.htm (la referenza sta nell’autore, il grande Hossam Ramazy : )

[2] Stage “Baladi with Stick”, Wael Mansour, Sahara Garda Festival 2013

[3] “La Danza del Ventre”, Jolanda Guardi e Claudia Lunetta (ottimo testo)

[4] http://www.ladanzaorientale.com/baladi-la-danza-tradizionale-del-popolo-egiziano/